Il deserto dei Tartari

Dino Buzzati
Fonte: shvoong.com

Una mattina di settembre, Giovanni Drogo, tenente di fresca nomina, viene inviato dalla città alla Fortezza Bastiani. Sembra giunto per lui finalmente il momento di liberarsi della prevedibile e monotona esistenza condotta fino ad allora. Sta per cominciare la vera vita, colma di promesse, soldi, belle donne, avventure. Eppure, nell'abbandonare la casa e la vecchia madre, il giovane avverte una punta di amarezza: abbandona una vita, il mondo dell'infanzia, in cui tutto gli sembrava ancora possibile, in cui tutte le opzioni esistenziali erano ancora aperte e gli si spalanca dinnanzi la vita adulta, fatta di responsabilità, di limiti ed obblighi da rispettare. La Fortezza si erge all'orizzonte isolata, in terra di frontiera. Una frontiera morta, ormai, priva di pericoli e di minacce. Davanti, a nord, c'è il deserto, "pietre e terra secca, lo chiamano il deserto dei Tartari", perché un tempo, molto lontano, pare fossero i Tartari a minacciare il confine. La Fortezza è un edificio inospitale, le sue mura sono tetre, il paesaggio intorno brullo, desolato, riarso. Al lettore vengono in mente i quadri metafisici di De Chirico. Alla Fortezza Drogo sperimenta la solitudine, "lo squallore di quelle mura, quell'aria vaga di punizione ed esilio, quegli uomini stranieri ed assurdi". Intorno percepisce la rigidità burocratica della vita militare, le regole insensate, la vuota disciplina, un'organizzazione che, in mancanza di un nemico tangibile, gira a vuoto, fine a se stessa. Il tenente Drogo è deluso, vorrebbe tornarsene in città, ma un po' i superiori, un po' oscuri lacerti della sua volontà lo trattengono. Più precisamente Buzzati scrive "oscure forze si oppongono, alcune originate dalla sua stessa anima". Vede che i più anziani hanno consumato la loro esistenza nella vana attesa di un evento formidabile che la riscattasse, aspettando cioè la guerra, la battaglia, "l'avventura, l'ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno", l'occasione propizia per dimostrare il proprio valore e ottenere gloria e onori agognati. "Per questa eventualità vaga", - annota il narratore -, "che pareva farsi sempre più incerta col tempo, uomini fatti consumano lassù la migliore parte della vita". Drogo, col passare del tempo, comincia ad abituarsi alla vita militare, con i suoi riti persino piacevoli e le sue certezze. Non succede quasi niente alla Fortezza: un giorno viene ucciso, per sbaglio e per zelante ossequio al regolamento, il soldato Lazzari, uscito a recuperare un cavallo che credeva il proprio; in un'operazione catastale più che militare, delimitare cioè il confine, muore, poi, ma di freddo, seppur con grande dignità, l'elegante e nobile tenente Angustina, sempre impeccabile nel vestire e nei comportamenti. Drogo ottiene una licenza e fa rientro in città. Non ne ricava, tuttavia, la felicità sperata: gli amici sono affaccendati, le speranze d'amore deluse, l'affettuoso rapporto con la madre è sbiadito, tra loro è calato come un "velo di separazione". Gli anni intanto passano, la carriera di Drogo procede lenta, per esclusiva anzianità di servizio, mentre i vecchi amici, in città, "hanno fatto strada, occupano posizioni importanti", lo hanno lasciato indietro nella corsa della vita, senza curarsi più di lui. Giovanni aspetta ancora "la sua ora, che non è mai venuta", ma il tempo stringe, molti cancelli si sono ormai chiusi alle sue spalle, ha bruciato molte possibili occasioni. Le scelte compiute ne stanno condizionando irreversibilmente l'esistenza. "E a più di quarant'anni, senza aver fatto nulla di buono, senza figli, veramente solo al mondo, Giovanni si guardava attorno sgomento, sentendo declinare il proprio destino". Come tutti gli uomini, "indifesi contro il lavoro del tempo", Giovanni Drogo malinconicamente invecchia. Un giorno i nemici, in forze, vengono avvistati all'orizzonte. Nella Fortezza è tutto un trambusto, un riorganizzarsi, un predisporre uomini e armi per lo scontro decisivo. L'ora della gloria è finalmente arrivata. Ma non per il protagonista. Solo, gravemente ammalato, dimenticato da tutti, considerato ormai un peso, Drogo abbandona su una carrozza per malati il fortino. Lo attende, tuttavia, una prova difficilissima, l'ultima e decisiva della sua esistenza, che richiede audacia, fierezza e dignità senza pari: l'incontro con la propria morte.

Brevi Tratti del racconto

Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre dalla città per raggiungere la Fortezza Bastiani, sua prima destinazione. Si fece svegliare ch'era ancora notte e vestì per la prima volta la divisa di tenente. Come ebbe finito, al lume di una lampada a petrolio si guardò nello specchio, ma senza trovare la letizia che aveva sperato. Nella casa c'era un grande silenzio, si udivano solo piccoli rumori da una stanza vicina; sua mamma stava alzandosi per salutarlo. Era quello il giorno atteso da anni, il principio della sua vera vita. Pensava alle giornate squallide all'Accademia militare, si ricordò delle amare sere di studio quando sentiva fuori nelle vie passare la gente libera e presumibilmente felice; delle sveglie invernali nei cameroni gelati, dove ristagnava l'incubo delle punizioni. Ricordò la pena di contare i giorni ad uno ad uno, che sembrava non finissero mai. Adesso era finalmente ufficiale, non aveva più da consumarsi sui libri né da tremare alla voce del sergente, eppure tutto questo era passato.Tutti quei giorni, che gli erano sembrati odiosi, si erano oramai consumati per sempre, formando mesi ed anni che non si sarebbero ripetuti mai. Sì, adesso egli era ufficiale, avrebbe avuto soldi, le belle donne lo avrebbero forse guardato, ma in fondo - si accorse Giovanni Drogo - il tempo migliore, la prima giovinezza, era probabilmente finito. Così Drogo fissava lo specchio, vedeva uno stentato sorriso sul proprio volto, che invano aveva cercato di amare.

...Drogo pensava a come potesse essere la Fortezza Bastiani, ma non riusciva a immaginarla. Non sapeva neppure esattamente dove si trovasse, né quanta strada ci fosse da fare. Alcuni gli avevano detto una giornata di cavallo, altri meno, nessuno di coloro a cui aveva chiesto c'era in verità mai stato.


...Legò il cavallo a un moncone di albero sul ciglio della via, dove avrebbe potuto trovare dell'erba. Qui si sedette, la schiena sulla scarpata, aspettò che venisse il sonno e intanto pensava alla strada che rimaneva, alla gente che avrebbe trovato alla Fortezza, alla vita futura, senza riconoscere alcun motivo di gioia. Il cavallo batteva a intervalli le unghie sul terreno in modo antipatico e strano. All'alba, riprendendo la via, si accorse che sull'opposto versante del vallone, a uguale altezza, c'era un'altra strada, e poco dopo vi scorse qualche cosa che si muoveva. Il sole non era ancora sceso fin laggiù e le ombre ingombravano le rientranze, impedendo di distinguere bene. Pure, affrettando il passo, Drogo riuscì a portarsi alla medesima altezza e constatò che era un uomo: un ufficiale a cavallo. Un uomo come lui finalmente; una creatura amica con cui avrebbe potuto ridere e scherzare, parlare della prossima vita comune, di cacce, di donne, della città. Della città che ora sembrava a Drogo relegata in un mondo lontanissimo. Stringendosi intanto la valle, le due strade si avvicinavano e Giovanni Drogo vide che l'altro era un capitano.


...Non varcare neppure la soglia della Fortezza e ridiscendere al piano, alla sua città, alle vecchie abitudini. Questo fu il primo pensiero di Drogo e non importa se tanta debolezza fosse vergognosa per un soldato, lui era anche pronto a confessarla, se occorresse, purché lo lasciassero subito andare. Ma una densa nube si levava bianca, dall'invisibile orizzonte del nord, sopra gli spalti, e imperturbabili, sotto il sole a picco, le sentinelle camminavano su e giù come automi. Il cavallo di Drogo fece un nitrito. Poi ritornò il grande silenzio. Giovanni staccò finalmente gli occhi dalla Fortezza e guardò di fianco a sé il capitano, sperando in una parola amica. Anche Ortiz era rimasto immobile e fissava intensamente le gialle mura. Sì, lui che ci viveva da diciott'anni, le contemplava, quasi ammaliato, come se rivedesse un prodigio. Pareva che non si stancasse di rimirarle e un vago sorriso insieme di gioia e di tristezza illuminava lentamente il suo volto.


...Drogo si presentò sull'attenti, mostrò i documenti personali, cominciò a spiegare di non aver fatto alcuna domanda per essere assegnato alla Fortezza (era deciso, se appena possibile, a farsi trasferire), ma il Matti lo interruppe. "Ho conosciuto anni fa suo padre, tenente. Un esemplare gentiluomo. Certo lei vorrà fare onore alla sua memoria. Presidente dell'Alta Corte, se non mi sbaglio?" "No, signor maggiore" fece Drogo "Era medico, mio padre." "Ah, già, medico, perbacco, mi confondevo, medico, sì, sì." Matti parve per un momento imbarazzato e Drogo notò come, portando spesso la mano sinistra al colletto, cercasse di nascondere una macchia di unto, rotonda, una macchia evidentemente fresca, sul petto dell'uniforme. Il maggiore si riprese subito: "Mi compiaccio di vederla quassù" disse. "Sa come ha detto Sua Maestà Pietro Terzo? "La Fortezza Bastiani sentinella della mia corona", e io aggiungerò che è un grande onore appartenerci. Non è forse persuaso tenente?" Diceva queste cose meccanicamente, come una formula imparata da anni, che bisognava tirar fuori in determinate occasioni. "Appunto, signor maggiore" disse Giovanni. "Ha perfettamente ragione, ma, le confesso, è stata per me una sorpresa. Io in città ho famiglia, io preferirei, se possibile, rimanere..." "Ah, ma lei dunque vuole lasciarci, prima ancora di essere arrivato, si può dire? Le confesso che mi dispiace, mi dispiace." "Non è che io voglia. Io non mi permetto di discutere... voglio dire che..." "Ho capito" fece il maggiore con un sospiro, come se quella fosse una vecchia storia e lui la sapesse compatire. "Ho capito: lei la Fortezza la immaginava diversa e adesso si è un po' spaventato. Ma mi dica onestamente: come fa a giudicare, onestamente, se è arrivato da pochi minuti?"



...Tu lo sai che qui alla Fortezza... si è rimasti tutti per la speranza... E' difficile dire, ma anche tu lo sai bene" (non riusciva proprio a spiegarsi: come far intendere certe cose a un uomo simile?) "se non fosse stato per questa possibilità..." "Non capisco" disse Simeoni con evidente fastidio. (Diventava anche patetico Drogo? pensò. La malattia l'aveva così rammollito?) "Ma sì che devi capire" insistette Giovanni. "E' più di trent'anni che sono qui ad aspettare... ho lasciato andare molte occasioni. Trent'anni sono qualcosa, tutto per aspettare questi nemici. Non puoi pretendere adesso... Non puoi pretendere adesso che me ne vada, non puoi pretendere, ho un certo diritto di rimanere, mi pare..." "Bene" ribatté Simeoni irritato. "Credevo di farti un favore e tu mi rispondi in questo modo. Non valeva proprio la pena. Ho mandato due portaordini apposta, ho fatto ritardare apposta la marcia di una batteria per lasciar passare la carrozza." "Ma non dico mica niente a te" fece Drogo. "Ti sono anzi riconoscente, tu l'hai fatto a fin di bene, lo capisco" (oh che pena, pensava, doversi tener buona quella carogna) "del resto la carrozza può fermarsi qua, adesso non sono neanche in condizioni di far un viaggio simile" aggiunse incautamente. "Poco fa dicevi che domani ti alzi, adesso dici di non poter neanche montare in carrozza, scusami ma non sai neanche tu cosa ti vuoi..." Drogo cercò di aggiustare: "Oh, no, è ben diverso, una cosa è fare un viaggio simile e un'altra andare fin sul cammino di ronda, posso anche portarmi una panchetta e sedermi se mi sento debole" (aveva pensato di dire una "sedia" ma la cosa poteva sembrare ridicola) "di là posso controllare il servizio, posso almeno vedere".


...Va là, Simeoni, lasciami tranquillo, forse ho poco tempo da vivere, lascia che io stia qui, sono più di trent'anni che dormo in questa stanza..." L'altro tacque un momento, fissò con disprezzo il collega ammalato, ebbe un cattivo sorriso, poi chiese con voce alterata: "E se io te lo chiedessi come superiore? Se il mio fosse un ordine, tu cosa potresti dire?" e qui fece una pausa assaporando l'impressione prodotta. "Questa volta, caro Drogo, non dimostri il tuo solito spirito militare, mi dispiace di dovertelo dire, ma in fin dei conti te ne vai al sicuro, chissà quanti farebbero il cambio con te. Ammetto anche che ti dispiaccia, ma non si può mica avere tutto in questa vita, bisogna pur farsi una ragione... Adesso ti mando il tuo attendente, che ti prepari le cose, per le due la carrozza dovrebbe essere qui. Ci vediamo più tardi, allora..." Così disse e se n'andò in fretta, deliberatamente, per non lasciare a Drogo il tempo per nuove obiezioni.


...Nessuno, in mezzo al trambusto della Fortezza, dove già arrivavano i primi scaglioni di rinforzi, fece molta attenzione a un ufficiale magro, dal volto smunto e giallastro, che scendeva lentamente le scale, si avviava all'andito di ingresso e usciva fuori dove era ferma la carrozza. Sulla spianata, inondata di sole, si vedeva in quel momento avanzare una lunga schiera di soldati, di cavalli e di muli, proveniente dalla valle. Benché stanchi per la marcia forzata, i militari acceleravano il passo quanto più si facevano vicini alla Fortezza e i musicanti, in testa, furono visti togliere le fodere di tela grigia agli strumenti come se si accingessero a suonare. Qualcuno intanto salutava Drogo, ma pochi e non più come prima. Tutti sapevano, pareva, che egli se ne stava andando e che oramai non contava più niente nella gerarchia della Fortezza. Il tenente Moro e qualche altro vennero a dargli il buon viaggio; fu però un saluto brevissimo, con quella affettuosità generica ch'è propria dei giovani verso le vecchie generazioni.


...L'ultima volta, molto probabilmente, pensò Drogo quando la carrozza giunse al ciglio della spianata, là dove la strada cominciava a immergersi nella valle. "Addio Fortezza", si disse. Ma Drogo era un po' instupidito e non ebbe neppure il coraggio di far fermare i cavalli, per dare ancora uno sguardo alla vecchia bicocca, che solo adesso, dopo secoli, stava per cominciare la giusta vita.


...Si trovò seduto su di una larga poltrona, in una camera da letto; ed era una sera stupenda che lasciava entrare dalla finestra l'aria profumata. Drogo guardava atono il cielo che si faceva sempre più azzurro, le ombre violette del vallone, le creste ancora immerse nel sole. La Fortezza era lontana, non si scorgevano più nemmeno le sue montagne.


...Tutto succederà nella stanza di una locanda ignota, al lume di una candela, nella più nuda solitudine. Non si combatte per tornare coronati di fiori, in un mattino di sole, fra i sorrisi di giovani donne. Non c'è nessuno che guardi, nessuno che gli dirà bravo. Oh, è una ben più dura battaglia di quella che lui un tempo sperava. Anche vecchi uomini di guerra preferirebbero non provare. Perché può essere bello morire all'aria libera, nel furore della mischia, col proprio corpo ancora giovane e sano, fra trionfali echi di tromba; più triste è certo morire di ferita, dopo lunghe pene, in un camerone d'ospedale; più melanconico ancora finire nel letto domestico, in mezzo ad affettuosi lamenti, luci fioche e bottiglie di medicine. Ma nulla è più difficile che morire in un paese estraneo ed ignoto, sul generico letto di una locanda, vecchi e imbruttiti, senza lasciare nessuno al mondo. "Coraggio, Drogo, questa è l'ultima carta, va incontro alla morte da soldato e che la tua esistenza sbagliata almeno finisca bene. Vendicati finalmente della sorte, nessuno canterà le tue lodi, nessuno ti chiamerà eroe o alcunché di simile, ma proprio per questo vale la pena.


...La camera si è riempita di buio, solo con grande fatica si può distinguere il biancore del letto, e tutto il resto è nero. Fra poco dovrebbe levarsi la luna. Farà in tempo, Drogo, a vederla o dovrà andarsene prima? La porta della camera palpita con uno scricchiolio leggero. Forse è un soffio di vento, un semplice risucchio d'aria di queste inquiete notti di primavera. Forse è invece lei che è entrata, con passo silenzioso, e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po' il busto, si assesta con una mano il colletto dell'uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra, una brevissima occhiata, per l'ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride.