Trilogia Dell'Altipiano

Mario Rigoni Stern
Storia di Tönle 1978
  L'anno della vittoria 1985
Le stagioni di Giacomo 1995

Continuazione ideale della Storia di Tönle, è quello che va dal novembre 1918 all'inverno successivo e racconta di una famiglia e di un paese che devono risollevarsi dall'immane naufragio della guerra.
Fonte Einaudi

L'anno della vittoria

Il cannoneggiamento era incominciato la notte del 24 ottobre, alle tre. I cannoni dall'altra parte avevano subito risposto e in breve sembrava che tutti, italiani e austriaci, volessero dar fondo alle riserve di munizioni. Nei giorni successivi, come trascorreva il tempo e gli austriaci si allontanavano, smisero di sparare i piccoli calibri, poi smisero anche i medi e solo i grossi cannoni prolungati accompagnavano la ritirata con ferocia spietata. Dopo quel continuo boato che sembrava non dovesse mai aver fine, venne finalmente un silenzio profondo e impressionante che da quattro anni più nessuno, da quelle parti, aveva ascoltato. Una sera venne anche la notizia che la guerra era finita, che era stato firmato l'armistizio, e le poche campane superstiti ne mandarono l'annuncio per i piccoli paesi sparsi tra le colline…

Quella notte non dormì. Stava rannicchiato, come avvolto, nel saccone di cartocci di granoturco: aveva fisso nella memoria la mattina del 16 maggio 1916 quando dovettero scappare verso la pianura. Sua madre era andata via disperata tenendosi stretta Orsola che aveva appena imparato a camminare, mentre Nina si era attaccata ai suoi pantaloni senza piangere ma con gli occhi spalancati dalla paura. Ricordava anche il vecchio Tonle e il cane Nero che spingevano via le pecore verso il bosco, in alto. Il vecchio gridava al cane: - Dài, dài Nero! Para! - e alla gente della contrada: - Via, andate! Ostia di ferro. Tornerete quando sarà passata! …

Dopo essersi fermato a guardare la linea dei monti e delle colline e aver visto affiorare il troncone del vecchio ciliegio che cresceva accostato al muro della stalla, si convinse che il luogo era quello. Risalì, allora, il cumulo di macerie e con le mani incominciò a spostare i sassi e le travi carbonizzate. Buttava via con furia ogni cosa morta che gli capitava, come se là sotto dovesse esistere ancora qualcosa di vivo da salvare. Trovò un pezzo del telaio della finestra, i ferri contorti del letto dei genitori, i resti bruciati del piumino, una pentola schiacciata e poi, sotto un'asse, la bambola di pezza con la quale giocavano le sorelline. Era ancora intatta, forse l'unica cosa che ancora rimaneva e le ripulì il viso e le vesti. Sul viso apparvero la bocca ricamata con la lana rossa e gli occhi fatti con la lana nera e celeste. Sulla veste di lino c'erano ancora le impronte lasciate dalle manine delle piccole quando giocavano vicino al focolare…

Seduto sul focolare il nonno guardava una pignatta di terra cotta che borbottava sopra la graticola; non si alzò, tirò su la testa che aveva china e pensierosa e disse con voce rauca: - Sei tornato, finalmente. Tanto tempo ci voleva per andare e tornare?... Matteo raccontò quello che sappiamo, ma quando arrivò a parlare di tanti soldati morti e di come aveva ritrovato la casa non seppe trattenere una smorfia di dolore e di rabbia. Il nonno sbuffava cercando nelle tasche vuote le briciole di tabacco per la pipa spenta; sua madre lo guardava in silenzio, poi con le mani che aveva belle ma rovinate dai lavori, gli prese la testa dicendo: - Basta, adesso. La casa la rifaremo. Se ci sono ancora sassi e tronchi la casa la rifaremo, - diceva il nonno…

Matteo salì la scala per portare la bambola alle sorelle e quando fu sul pianerottolo dove si apriva la porta della camera sentì l'odore dolciastro della febbre e della malattia: - Sono qui, - disse a voce alta, - e vi ho portato la vostra bambola. Le due bambine erano sprofondate nei sacconi di cartocci e con le coperte militari che avevano distribuito ai profughi tirate fin sul mento; gli occhi erano lucidi e il viso affilato: - Vi ho portato la vostra bambola, - ripeté, - così potete ancora giocare. La più piccola tirò fuori un braccio magro: - Dammela, dammela! La bambola finì tra le coperte, anche lei ammalata che sporgeva la testa buffa e i capelli che erano bioccoli di lana greggia incollati sulla pezza. -Adesso vado a cercarvi del latte, così guarirete…

Con sconforto e stanchezza, ma anche con una speranza nel cuore giunse fino alla Mare dove conosceva una ragazza della sua età, Caterina, che ridente e felice nella sua giovinezza aveva dimostrato verso di lui tanta simpatia e forse turbamento d'amore quando in maggio era andato da loro per la fienagione. La loro casa grande e con fienili e aia era dopo la cappelletta. Bussò e aprì la porta dopo un deciso:- Avanti! Stavano cenando; sulla tavola c'erano una grande polenta fumante, una terrina di fagiolini verdi, un piatto con uova sode tagliate a metà. Salutò quasi timido e arrossì allo sguardo luminoso di Caterina. Anche là gli uomini erano via in guerra e il vecchio che sedeva a capotavola gli chiese: - Come mai da queste parti? Ma vieni avanti; una fetta di polenta calda c'è anche per te. Matteo restava in piedi imbarazzato ma sentiva tutto quel calore affluirgli al cuore. Inghiotti la saliva: - Mi manda mia madre se potete venderci un po' di latte. Ho le sorelle ammalate con la febbre e non hanno voglia di niente. - Speriamo non abbiano preso la febbre spagnola, - disse la madre di Caterina. - Dài, dammi la gamella. La donna andò in un'altra stanza e ritornò con il recipiente quasi colmo: - Stai attento a non spanderlo per la strada. Ma aspetta, siediti e mangia qualcosa con noi. Intanto che mangiava la donna mise due cucchiaiate di miele scuro e denso su un pezzo di carta oleata e glielo posò accanto sulla tavola. -Non è per te, -disse sorridendo, -è per le tue sorelle. Di' a tua madre di scioglierlo nel latte caldo. Vedrai che gli farà tanto bene…

La piccola Orsola morì quella notte del sette novembre senza che nessuno se ne accorgesse. Al mattino la madre era scesa per ravvivare il fuoco e riscaldare un po' di latte per le ammalate mentre ancora tutti dormivano. Buttò una fascina sulla brace e soffiò finché una fiammella si fece viva dai rametti più secchi. Versò il latte in una cuccuma di rame e la posò sulla graticola vicino alle fiamme che ora, allegre, illuminavano tutta la piccola cucina facendo apparire la finestra e il pavimento di ciottoli. In un secchia si risciacquò mani e viso, si asciugò in un canovaccio e poi versò il latte bollente nelle due tazze dove aveva messo prima un cucchiaino di miele. Salì dalle figlie. La più grandicella, Nina, aprì gli occhi con fatica e appoggiandosi sulle braccia si alzò sul busto. Ma Orsola non si mosse. Non si mosse nemmeno quando la madre, dopo aver posato le tazze su una sedia, si avvicinò per scuoterla dolcemente. Si rese conto che era morta quando le posò la mano sulla fronte, che sentì fredda, di quel gelido senza vita, e, abbassando un po' le coperte vide il corpicino rigido, rannicchiato, e le mani bianche e diafane che stringevano contro il petto la bambola di pezza. Non chiamò nessuno, né pianse. Abbracciò la piccola e se la tenne stretta al petto come se con il suo calore avesse potuto ridarle la vita. Anche Nina che scottava per la febbre si era aggrappata a lei…

Matteo…
Una sera che andò a prendere il latte dai Nicoli non vide Caterina. La cercò con lo sguardo e la madre di lei, che aveva notato i loro sentimenti, gli disse che la ragazza era a letto con l'influenza. Nel ritornare a casa per la strada illuminata dalla luna piena sentiva dentro una grande tristezza e uno struggimento da piangere…

Caterina, che sembrava avesse superato la crisi, un pomeriggio del tardo novembre spirò. Matteo lo seppe nella bottega del fornaio della Mortisa dove si era recato per comperare un pane bianco per la sorella convalescente. Sentì il cuore restringersi come quando vide sua madre abbracciare Orsola e, ritornato a casa, stette per lungo tempo in silenzio e immobile a fissare le braci del focolare…

Si avvicinò al focolare, aprì la cenere e mise a nudo alcune braci, ravvivò il fuoco e si fermò immobile, in piedi, a guardare le fiamme e le faville che salivano su per la cappa nera. Silenziosamente incominciò a piangere, sentiva che con quel fuoco e con quelle lacrime finiva anche la sua giovinezza…

Una sera di fine febbraio, rientrando a casa, Matteo trovò suo padre…

Suo padre, ancora in divisa da soldato, era seduto accanto il fuoco, teneva sulle ginocchia la figlia e stava parlando con il nonno e la mamma. Si alzò in piedi e lo abbracciò forte. Non dicevano niente, forse le cose da parlare erano troppe, troppe domande per ambedue e i pensieri si frammischiavano senza poter essere formulati in ordine…

Con l'inizio della primavera altri soldati vennero congedati, ma tra i profughi incominciò a premere un forte desiderio di mettersi in strada per ritornare a casa. Dalla Lombardia, dal Piemonte e anche da laggiù oltre il Po le famiglie raggiungevano il Veneto e le pianure ai piedi dei nostri monti; si sistemavano come meglio potevano in case o in baracche o in opifici abbandonati in attesa di un segnale, di un qualcosa che desse il via: il tuono di primavera o il canto del cuculo. Invece si aspettava una circolare delle autorità governative…

Il vecchio Tana rimase con loro a cenare con polenta calda e formaggio e restò sino alle nove per parlare e sentire come avevano passato il profugato, se avevano notizie degli altri compaesani; ma più di tutto voleva sentire della guerra, dei conoscenti e parenti della contrada che erano stati insieme nel battaglione degli alpini e rimase male quando sentì che anche Nin Sech, dopo la battaglia di novembre sul monte Fior, era stato dato per disperso. Angelo Sech, fratello del Nin era ben vivo, come lo erano Toni Scoa, Toni Ciorgolo, Menego Pùn. Fort era morto sul Piave, a Vidor, negli ultimi giorni di guerra, come erano morti Gaiga e Sciràn, il Nesc.- Anche Tonle,- disseTana al padre di Matteo, - anche Tonle ho saputo che è morto. Ma non in guerra. Ho sentito dire che lo hanno trovato morto la mattina di Natale, dalla parte della Valrovina o di San Michele, sopra Bassano…

Era ritornato il silenzio, un grande silenzio come d'inverno quando nevica e pareva che tra quelle macerie fosse ritornata la vita. I due uscirono a guardare la loro terra. Sentirono gli uccelli del ripasso che si chiamavano in volo, una leggera pioggia primaverile che lavava via la guerra e un odore nuovo, di bosco in amore. Rientrarono nella loro casa tenendosi per mano. I ragazzi e il vecchio dormivano pesantemente e loro due tornarono ad amarsi come sposi novelli.
...
Ora, nelle baracche, era un altro vivere e benché ognuna ospitasse due o anche tre famiglie le giornate trascorrevano più serene; e anche se si doveva ricominciare tutto daccapo pareva a loro che qui la vita fosse meno dura. Ragazzi e ragazze ricominciavano a scherzare, a scambiarsi occhiate e frasi ingenue che a loro sembravano audaci. Anche i bambini avevano ripreso a giocare e anche se le scuole non avevano ripreso a funzionare qualche madre tentava di far loro scrivere qualche parola e qualche numero. Alla sera, nella baracca del santolo Popo, c'era l'allegria della giovinezza perché i ragazzi della contrada, e quindi anche Matteo, si ritrovavano a fare un po' di musica e a ballare con le figlie del santolo. Qualche volta non ci stavano tutti e se era bel tempo e la sera dolce uscivano sulla strada, sul crocevia dove era rimasta la croce che ricordava i morti della peste, e li con i mandolini dei Pune e la fisarmonica del Vusc si continuava a ballare sotto gli occhi degli anziani.
...
Quel giorno, come chiamati da un ricordo o da una speranza, o da un'eco di campana conservato nella memoria i profughi che erano ritornati si trovarono tutti davanti le rovine della chiesa. Al vederli cosi malinconici e silenziosi un cappellano stese una tovaglia bianca sopra quattro assi e celebrò il rito. Quando ebbe finito e benedisse, da poche donne vestite di scuro ma con mazzi di crochi infilati nella cintura, venne intonato l'antico inno:

Bear ist auf gastannet In z'martarn so zorgannet? Alle-Alleluia
Dar Crist von allar Klage Stann auf imm'Osterntaghe Alle-Alleluia
Da Kammen au drai Vraughen Un boltent z'grab auf schiaughen Alle-Alleluia ...

A tutti, nel riascoltare queste parole e il canto che credevano perduto tra le rovine della guerra, venne una grande commozione e nell'intimo capirono che anche la loro terra sarebbe risorta. Matteo, la madre, il nonno, Nina e Tana erano in gruppo con gli altri delle contrade e a loro si avvicinò il tenente del Genio chiedendo: - Cosa vuol dire questa canzone? Che lingua è? -Questo vuol dire, signor ufficiale,- disse Tana. E tradusse:

- Chi è risorto dalla morte e dal dolore? Alleluia.
Cristo senza lamenti risorge il giorno di Pasqua. Alleluia.
Sono arrivate tre donne per vedere il sepolcro di Cristo. Alleluia.
Dice l'angelo alle donne: il lutto è finito. Alleluia.

Il tenente ascoltò con attenzione e poi disse: - Proprio bello questo inno. Ma in che lingua è? - Nella nostra vecchia parlata. In cimbro, - disse Matteo. -Ma come è strana questa vostra terra. Tutta l'Italia è strana. Dalle mie parti parlano il greco e c'è una canzone quasi uguale a questa anche nella musica, - e si allontanò canticchiando l'aria del Crusle…

Non erano ancora tanti quelli che ritornavano; il pensiero di dover abitare tra le macerie e senza un tetto sopra il capo faceva desistere i più deboli. E poi la procedura del risarcimento dei danni di guerra andava per le lunghe e non ancora era chiara perché autorità governative civili e militari avevano tra loro conflitti di competenza: certi uffici contraddicevano altri, alcuni volevano moduli e stampati in una maniera, altri in maniera diversa; era sufficiente una parola, una virgola di una circolare a far discutere i funzionari.
...
Il padre di Matteo poté finalmente incaricare il geometra Brugnato per la perizia giurata dei danni, sia per la casa che per i campi. Il documento in triplice copia firmato da lui e dal geometra venne consegnato negli uffici della baracca n. 17 dove aveva sede il Consorzio tra danneggiati e l'Ufficio tecnico del Comune. Ora potevano dar mano a ricostruire veramente la loro vecchia casa, ovvero la nuova casa sul sedime della vecchia, e cosi ogni sabato e ogni domenica, e anche al mattino di buon'ora, Matteo e suo padre incominciarono a tirar su i muri maestri, le pareti, a riquadrare le finestre e le porte con gli stipiti e l'architrave in pietra viva della cava dei Pasc. Il nonno andava con il mulo a prelevare il materiale; a tale scopo, con due ruote prese da un piccolo cannone da montagna, si erano fatti costruire un carrettino da Andrea Matta che, appena congedato, aveva ripreso il suo lavoro di carradore in una baracca della contrada Ebene.
...
Il nonno non aveva detto a caso quella battuta perché aveva notato che alla sera dopo cena Matteo si lavava, si pettinava, si metteva una camicia pulita, si spazzolava gli scarponi che aveva tinto di nero e usciva in fretta come se qualcosa lo attendesse Era facile supporre che ad aspettarlo fosse una ragazza. Matteo andava a chiamare Angelo e assieme, attraverso i sentieri con passo svelto, giungevano alla contrada Ébene dove erano attesi da due sorelle. Là si appartavano in un angolo della baracca per un paio d'ore; parlavano sottovoce, sognavano, si sfioravano i corpi rabbrividendo e quando la madre delle ragazze diceva: -Domani dovete andare a lavorare; è ora di andare a dormire, - le ragazze li accompagnavano fin sulla porta per avere un bacio. Ritornavano a casa quando l'aria fredda scendeva dalle montagne più alte portando l'odore della neve, ma conservando a lungo sulle labbra il sapore di quel bacio.
...
Dove corri ragazzo? - chiese vedendo Matteo che si affrettava verso la baracca del medico. -Vado a chiamare il dottore, mia madre ha le doglie. -Auguri! Se ripassate di qua vi farò attaccare la slitta. Matteo bussò alla porta del medico e ad aprirgli venne la signora: -Che c'è?- chiese. -Che succede? - Mia madre ha i dolori di parto e sappiamo che in paese non c'è ancora la levatrice. - Questa è una bella notizia. Finalmente una nascita. Cesare! Cesare! -chiamò la signora verso l'interno della baracca. - C'è un bambino che deve nascere. Il medico dopo pochi minuti si presentò sulla porta con borsa in mano, mantello sulle spalle, berretto sportivo e scarponi: -Andiamo, è il primo parto che avviene qui dal maggio del millenovecentosedici. Matteo si mise in strada per battere la pista davanti al dottore, la neve continuava a scendere lenta e fitta e dopo pochi passi si vide davanti un cavallo attaccato a una slitta e sulla slitta il tenente con in mano le redini e la frusta: - Salite! - disse allegro l'ufficiale. -Vi accompagno io; questo sarà l'ultimo servizio che faccio perché con il primo di gennaio mi arriverà il congedo. Il medico e Matteo salirono sulla slitta e si sedettero sulla balla di paglia messa come sedile. La slitta scivolava silenziosa sulla neve. - Se sarà un maschietto, - disse il tenente dopo un po', come seguendo un suo pensiero, - chiamatelo Francesco. San Francesco è il santo dell'amore. Se sarà una bambina chiamatela Irene; in greco vuol dire amica della pace, pacifica. -Noi pensavamo di chiamarla Orsola in ricordo di una sorellina che è morta di febbre spagnola quando eravamo profughi. Ma Irene ha un bel significato. - Doveva capitare prima o poi; dopo tante morti si riprende a nascere. Il cavallo affrontò con impeto la salita mandando vapore dalle froge. La slitta scivolava nella luminosità di quel mattino del trentun dicembre e quando si fermarono davanti alla casa con il ramo d'abete sopra l'uscio sentirono il pianto di chi nasce.
Asiago, ottobre 1983- agosto 1985.

Volano le bianche

Coro: I Crodaioli
Compositore: Giuseppe (Bepi) De Marzi
Parole: Mario Rigoni Stern

Volano le bianche dal silenzio dell’Ortigara
La montagna è rifiorita è l’alba sull’Ortigara
Volano le bianche
Dal silenzio volano le bianche
Dal silenzio
è l'alba
volano le bianche.